“Ogni vero artista, per nascere, deve uccidere chi è venuto prima di lui”
L’intervista di Not Yet a Lorenzo Richelmy
Tra i giovani attori italiani che più hanno saputo distinguersi per il proprio talento sul grande e piccolo schermo negli ultimi anni, merita un posto di riguardo Lorenzo Richelmy, non solo perchè ha partecipato, in già più di dieci anni di carriera, a diversi ruoli importanti, affiancando colonne portanti del cinema italiano e venendo diretto da registi affermati, ma soprattutto perchè è uno dei pochi attori italiani che affida il proprio talento anche a produzioni estere e crede fermamente nel fatto che dall’essere italiani – così come dall’essere europei – possa ancora nascere un nuovo modo di raccontarsi attraverso la cinepresa, al di là di ogni facile stereotipo. Dopo essersi fatto conoscere al grande pubblico con la teen serie ‘I liceali’, ha poi imboccato la strada dello studio diventando il più giovane attore ad essere ammesso al rinomato Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha lavorato con Verdone (‘Sotto una Buona Stella’), Carrisi (‘La ragazza nella nebbia’) e Castellitto (‘Il talento del calabrone’) ed è stato, ancor prima che Netflix approdasse in Europa e regolasse i gusti di milioni di telespettatori, protagonista della serie americana ‘Marco Polo’. In questa intervista per Not Yet ha parlato della necessità di una svolta nell’industria cinematografica italiana, della fruizione della cultura nella modernità liquida e del fatto che, per ogni giovane talento che voglia esprimersi, arriva sempre l’ora di uccidere i propri padri.
Ciao Lorenzo! Parlaci di come stai, del tuo ultimo periodo e degli altri progetti a cui stai lavorando.
Ho passato un periodo molto intenso dal punto di vista lavorativo. In particolare ho appena finito di girare due film e una serie televisiva, progetti dignitosi e di cui posso andare orgoglioso: ‘Eravamo Bambini’ di Marco Martani,‘L’Uomo sulla Strada’ di Gianluca Mangiasciutti – uscito l’8 dicembre nelle sale italiane – ed una serie Amazon UK in uscita a breve. Sono soddisfatto perchè Amazon, dal punto di vista editoriale, ha fatto la scelta di proporre serie brevi, non troppo tirate avanti e molto incentrate sugli attori e sulle loro capacità; questa sarà un legal-thriller sul mondo del tennis. Unica pecca: uno dei protagonisti, quello che io interpreto, doveva essere inizialmente un tennista greco ma, scegliendo un attore italiano, hanno deciso di cambiare nazionalità anche al personaggio, quando io ero ben contento di interpretare un greco. Questo è un po’ il trend a cui siamo sottoposti nelle produzioni estere ma il ruolo dell’attore dovrebbe essere incentrato proprio sul farsi altro da sè.
Non è un caso che non abbiamo saldi rappresentanti italiani nel panorama cinematografico internazionale, a parte qualche rara eccezione.
È un po’ un cane che si morde la coda. Se si pensa ai vari Christoph Waltz, Micheal Fassbender o Javier Bardem, sono tutti partiti con grandi film “di casa loro” che li hanno lanciati sulla scena internazionale ed hollywodiana. Manca questo passaggio nella scena italiana. Forse, semplicemente, non ci crediamo abbastanza e manca ancora quel film di respiro internazionale. Non fraintendetemi: ci sono i grandi registi italiani che hanno ampia risonanza all’estero, uno su tutti Sorrentino, ma l’italiano all’estero rimane cannibalizzato dall’immagine stereotipata dell’italo-americano, tutti si sentono di averci già conosciuto, e quello che abbiamo saputo tirare fuori negli ultimi anni rimane, ad esempio,‘Gomorra’. Allo stesso tempo escono film di produzione americana, come ‘House Of Gucci’ o il film in uscita su Enzo Ferrari, che dipingono il carattere italiano attraverso lenti lontane dalla nostra identità, alla stregua della ridicolizzazione dell’asiatico nei film di arti marziali. Non credo sinceramente ci si debba aspettare qualcosa dall’estero. È da noi, dall’industria italiana, che deve partire la vendita di un’immagine più alta, più raffinata di quello che siamo. Portare l’italianità in modo autentico, moderno. Un altro punto interessante è che la differenza tra Stati Uniti ed Europa si sta radicalizzando e polarizzando, tanto a livello culturale quanto sociale, e penso che una cultura europea esista ed abbia di conseguenza grandi differenze con quella americana. È inutile quindi, a mio avviso, cercare di rincorrere tematiche lontane o che non ci riguardano troppo da vicino, finendo per sembrare satelliti di una creatività che parte da oltreoceano. Dobbiamo smettere di cercare di compiacere un pubblico che non è il nostro. Cercando di parlare sempre a tutti, alla fine non si parla a nessuno.
Da qui, forse, una sovrastimolazione dello spettatore, che viene invaso da una serie o da un film dietro l’altro. Esistono produzioni di grande qualità, come ad esempio ‘Marco Polo’, a cui tu stesso hai preso parte, ma quello che ci chiediamo è se da questa sovrastimolazione rimanga poi qualcosa – di vero, di concreto, di nuovo – o è un continuo rimescolare idee per creare qualcosa che sembri, almeno all’apparenza, non già visto.
Quello che vediamo è il risultato di una bolla produttiva. Nella pilot season, in uscita a febbraio o marzo, le grandi case di produzione e i grandi canali di streaming investono tantissimi soldi sul cercare di creare nuove serie tv. Lanciano il primo episodio pilota e poi vedono come va; se prima si sceglieva di lanciare una serie su dieci, ora se ne lanciano nove. Le produzioni lavorano per le piattaforme in modo indefesso e non c’è, attualmente, molto scrupolo nel cercare di capire quale serie sia giusta per il momento. D’altra parte, per la questione del pubblico, ci sono un’enormità di serie tv mainstream che non chiedono particolare attenzione o consapevolezza e allo stesso tempo gran parte del pubblico chiede di essere semplicemente intrattenuto. Si stanno però rendendo conto che tutto questo copre solo una certa fetta di mercato. Una grande nicchia di spettatori chiede di più, chiede di non capire al volo e di scandagliare la narrazione per trovare risposte. Un esempio può essere la prima stagione di ‘Games Of Thrones’, molto ardita nel non dirti nulla, oppure ‘WestWorld’, dove hanno grande importanza gli attori; sono esempi in cui lo spettatore può crescere con la vicenda narrata. Io penso che, passato questo momento di bolla, in cui inevitabilmente verranno tirate le somme su quelle che sono le grandi piattaforme e qualcuno verrà meno (da notare che si chiede un compenso economico non indifferente allo spettatore), alla fine di questo processo vinceranno le storie, quelle interessanti, fatte di persone e che delegano il mondo che vogliono raccontare agli attori, molto più che agli artifici o agli effetti speciali. Le persone torneranno a cose più semplici e vere.
Fiducia nelle persone che fanno le storie, e quindi negli attori che le interpretano e le portano in scena. La tua è stata una scelta precisa, dopo essere arrivato al successo con ‘Liceali’, ti sei fermato iscrivendoti al Centro Sperimentale di Cinema di Roma, e hai deciso di studiare, di vivere l’accademia per diventare un vero attore.
È indubbio quanto la televisione generalista degli anni Novanta e inizio Duemila entrasse nelle case delle persone e potesse renderti popolare in un attimo, ma al tempo non c’erano molte strade utili come non c’erano molti modelli di giovani attori italiani. Diciamo che avrei continuato a recitare a livello televisivo o in produzioni sulla falsa riga di‘Liceali’ se, con la spinta di Pandolfi e Tirabassi, non avessi deciso di rimboccarmi le maniche e propormi al Centro Sperimentale di Cinema di Roma, durante la seconda stagione della serie. Oggi ci sono tanti teen shows ma i giovani attori contemporanei hanno anche più strumenti per comprendere la professionalità del loro ruolo. È sempre tosta dire di no, una volta arrivato alla ribalta, se ti propongono una produzione dietro l’altra e, in più, grandi contratti di sponsorizzazione, ma penso che la mia fortuna sia stata anche quella di avere due genitori attori e che quindi sapessi cosa volesse dire essere un vero attore. Sai, ad un certo punto della carriera, quando invecchi e smetti di avere la faccia carina, devi metterti in gioco e far vedere che hai acquisito, già da tempo, gli strumenti giusti per esprimere il tuo talento sulla scena. È un mestiere, quello dell’attore, che ha a che fare con la psicologia ed un bravo attore dovrebbe evolvere sempre: con l’accademia, con lo studio, il raggio delle possibilità si amplia e l’insicurezza, che è il nostro peggior nemico, viene rimossa sempre di più. Parlando ad attori emergenti direi loro di approfittarne, perchè vivono in un epoca in cui, culturalmente parlando, ci sono delle praterie da cavalcare: quello che non devono fare è vestirsi con costumi che non sentono loro.
Parlando di psicologia e dei ruoli che ti hanno formato come attore, si può notare una scelta costante ed indirizzata verso film che pongono al centro della loro narrazione lo scontro tra due mondi opposti: ne ‘Il Talento del Calabrone’ è quello tra nuova e vecchia generazione; ne ‘L’uomo sulla strada’tra senso di colpa e desiderio; ne ‘La Ragazza nella Nebbia’ tra la vita di una tranquilla cittadina sperduta nei monti e l’avvento della strabordante contemporaneità mediatica. Credi che l’attore debba sapersi porre al centro di questi scontri, farsi traghettatore da una sponda all’altra e saper navigare nell’abisso che li distanzia?
Sì, non a caso io sono un amante del conflitto, non esiste storia interessante senza conflitto. Uno scontro nasce dall’accettazione che siamo tutte monadi, ognuno ha il suo mondo interno. È forse in contrasto con la vulgata odierna, per cui dobbiamo essere tutti uguali, dobbiamo tutti volerci bene. Tutto quello che porta in scena questa opposizione mi affascina, soprattutto il conflitto generazionale, il primo che viviamo, anche in termini artistici. Io credo di dover uccidere i padri, gli attori della vecchia guardia, adesso è arrivato il nostro turno perchè sappiamo cose nuove, cose diverse e l’attore, come dici, deve saper traghettare verso una visione più progressista. Tutti i film che mi permettono di esplorare questo conflitto di senso mi affascinano anche se è una frizione molto difficile da rappresentare sulla scena. L’Italia è un po’ indietro anche perchè, molto banalmente, siamo tra i paesi più vecchi d’Europa; difficilmente potrà uscire qualcosa come ‘Mr Robot’, ma non significa che non si debba spingere per far sì che accada. Bisogna anche trovare un compromesso per presentare ed aprirsi alle vecchie generazioni, per farle entrare e dialogare. Un esempio è il film ‘Dolceroma’, che affronta il tema dello scontro generazionale in chiave comica e malinconica allo stesso tempo. Tutti dobbiamo essere in grado di convivere in pace con regole che, però, non sono più dogmatiche. Oggi saltano tutte le sovrastrutture e da attore è bello riuscire ad essere un arbitro, qualcuno che sta in mezzo. È il compito più bello che l’attore può assolvere.
Da qui la valorizzazione delle differenze, di cui l’attore si fa portavoce davanti agli occhi dello spettatore, diversificandosi in ogni ruolo che porta in scena.
È un discorso estremamente contemporaneo. Siamo del resto in un periodo della storia in cui la grande massima di Voltaire: “Lotterò fino alla morte perchè tu possa esprimere la tua opinione”, si è trasformata in: “Non puoi esprimere la tua opinione nella misura in cui questa può offendere qualcuno”. Questo è in contrasto con le politiche culturali che vanno verso l’apertura e un ruolo di importanza culturale come quello dell’attore deve distruggere ogni forma di conservatorismo, soprattutto quando viene travestito da progressismo. Ritengo che certi atteggiamenti, come l’uso spasmodico delle emoticon o di certi linguaggi falsamente inclusivi, siano in realtà scorciatoie che possono tragicamente ottenere l’effetto contrario, è invece importante che le persone vogliano ancora trovarsi davanti alla difficoltà di esprimersi e vogliano districarsi nell’ambiguità che ci rende umani.
Oltre a ruoli dove il lavoro è stato più psicologico, hai poi recitato in film dove il focus è incentrato sull’azione e sul movimento: possiamo citare l’anticonvenzionale ‘Ride’, una specie di film-videogioco, oppure ‘Il terzo tempo’, dove reciti la parte del rugbista.
Io sono un grande appassionato di videogiochi, in ‘Ride’ l’attore è una macchina da presa che gira continuamente in corsa. Anche se dal punto di vista drammaturgico è un film poco complesso è stato un lavoro stimolante, infatti mi diverte tutto quello che è sperimentazione psicologica e allo stesso tempo tecnica; ne ‘Il terzo tempo’ c’è stata grande indagine sulla dimensione fisica. Il bello dell’attore è proprio quello di vivere tante vite, anche opposte, ed arrivare ad avere la consapevolezza culturale, grazie al duro lavoro, che non c’è meglio o peggio ma sempre aspetti diversi e contrastanti. Per questo motivo gli attori che hanno alle spalle lunghe carriere, che hanno interpretato molti ruoli, sono persone molto interessanti da incontrare, perchè nel loro piccolo hanno messo piede in tanti mondi diversi.
Hai già dato un consiglio ai giovani attori emergenti e allora ti chiediamo, per chiudere, di suggerirci il nome di un giovane attore o di una giovane attrice che, secondo te, potrà portare ancora più in alto il cinema italiano grazie al suo talento.
Un nome che mi viene in mente, di un’attrice straordinaria che ha studiato con me nel Centro Sperimentale, è quello di Elena Radonicich. Lei, che ha già partecipato a diversi film e serie tv ottenendo ruoli importanti, non solo ha grande talento, ma è l’emblema del discorso che abbiamo affrontato prima: l’attore che deve saper traghettare, devere saper prendere tutto ciò che è venuto prima e scardinarlo sulla scena, stravolgerlo per offrirlo, in chiave contemporanea, al nuovo pubblico.