La nostra intervista ad Antonio Bannò
Una chiacchierata con l’attore fra serietà e leggerezza a tema teatro, cinema e salute mentale
Antonio Bannò, romano con la R maiuscola nato nel 1994, è un attore emergente che si sta facendo strada nel cinema italiano. La sua formazione teatrale inizia al Teatro Nazionale di Genova dove si diploma nel 2017, per poi frequentare un corso di perfezionamento al Teatro di Roma. Il debutto in televisione, preceduto dalla partecipazione a varie produzioni teatrali, avviene nel 2017 nella serie ‘Rocco Schiavone 2’ cui seguono ‘Suburra’, ‘Christian’ e ‘Vita da Carlo’ con Carlo Verdone.
Insieme alla televisione arrivano anche i primi ruoli cinematografici: il primo, da protagonista, nella piccola produzione ‘Go Home – A Casa Loro’ diretto da Luna Gualano. Grazie a questa prima esperienza si crea un’intesa fra la regista e Bannò, che ritroviamo fra i primi attori nella recentissima pellicola di Gualano ‘Guerra del Tiburtino III’ nelle vesti di Pinna, personaggio che come spiega la regista in un’intervista è stato scritto su misura per Bannò. Nel 2020 viene insignito del Premio RB Casting – Miglior Attore Emergente per la performance in ‘Tigers’, drama di Ronnie Sandhal.
Motivato ed estremamente curioso sul lavoro e nella vita, Antonio ci racconta di sé con simpatia, un pizzico di autoironia e l’immancabile accento romano.
Iniziamo dal principio: nel tuo caso, si può parlare di vero e proprio battesimo attoriale…
Decisamente, avendo iniziato come Gesù Bambino. Da piccolo sono stato selezionato da una compagnia di giro – una cosa molto ottocentesca – che faceva performance in tutta Italia con cui poi, per qualche ragione, ci siamo trovati a fare solo spettacoli sacri. Allora ero molto grazioso, prima che si sviluppasse il naso caratteristico dei Bannò, ragion per cui ora sono un perfetto Pinna ne ‘La Guerra del Tiburtino III’, il cui soprannome accenna proprio al suo naso prominente.
A proposito, con ‘La Guerra del Tiburtino III’ hai rispolverato il ruolo del protagonista. Cosa significa per te questo film e il personaggio che hai interpretato?
Innanzitutto, mi trovo davvero bene a lavorare con Luna. Sai quando ti incontri? Penso di incarnare quello che lei vuole e nelle sue idee ritrovo quello che io vorrei vedere. Abbiamo fatto ‘Go Home’ insieme ed è costato quanto un garage, girato nei centri sociali e per strada, ed è stato una bella soddisfazione. Era il mio primo film ed anche lì ero protagonista; trovo molto dolce il riproporsi di questa collaborazione diversi anni dopo. Fare il protagonista è bello perché puoi dare un contributo più significativo: un film lo fanno la regia, il montaggio e l’attore (forse non in quest’ordine), non puoi cambiare il soggetto, ma giocando con le battute puoi personalizzare la tua interpretazione.
Hai seguito un percorso di formazione nel teatro. Il cinema è sempre stato il tuo obiettivo o consideri il ritorno alle origini?
L’ingresso nel cinema è stato casuale, il casting è avvenuto nel corso di uno spettacolo in cui ho recitato durante i miei studi con Valerio Binasco. Al momento preferisco il cinema, lo trovo più divertente, e ormai sono meno partecipe del mondo del teatro. Trovo che il teatro sia un paradigma, un codice che devi imparare a conoscere prima di poterlo capire a fondo. Un po’ come l’arte: solo chi ne è appassionato può darti le chiavi di lettura dell’opera che te ne fanno riconoscere la profondità e la genialità.
La tua è una passione sviluppata autonomamente o nasce in famiglia?
Vengo da una famiglia borghese, andare a teatro fa parte del nostro codice. Crescendo l’interesse è rimasto e si è evoluto verso il cinema, e ora ne sono un grande masticatore: adesso so che mia madre ha dei gusti orribili *dice scherzando*.
Hai vissuto i panorami diversi di Roma e Genova, ma alla fine non hai abbandonato la tua città. Cosa ti hanno regalato le due esperienze, e cosa ti ha fatto tornare?
Sono tornato per le opportunità lavorative, Roma è più movimentata; a Genova c’è uno zoccolo duro del teatro, immagina che è forse l’unica città con più abbonati a teatro che allo stadio. Rimane una città che ho amato: avevo diciannove anni, ero da solo per la prima volta e abitavo in un quartiere multietnico in un asilo occupato, un luogo surreale dove ho vissuto mille avventure. Ricordo quando mi hanno bussato alla porta e una signora mi ha lasciato in braccio il suo bambino, senza spiegazione alcuna, per poi recuperarlo un minuto dopo. La sera per ringraziarmi mi hanno offerto dell’ottimo couscous. Insieme alle bizzarrie di Genova e dei suoi carrugi sperimentavo tutto il caos e il vortice che è essere giovane e fuori casa. Roma invece che t’ensegna… Roma ti rovina! Scherzi a parte adoro la mia città ma è proprio un casino. Cruciani l’ha paragonata a Mumbai o Nuova Delhi e non ci è andato molto lontano.
Parlando di Roma, lavorare con Carlo Verdone dev’essere un’esperienza. Cosa ti ha insegnato sul set?
C’è da dire che Verdone è veramente un signore, come tutti gli attori del suo calibro che ho incontrato. Per mia esperienza i grandi attori, quelli che ci piacciono, sono tutti persone di un certo spessore, e Verdone è sicuramente un professionista.
Oltre a questo, è identico a come lo si vede nella serie, anche in quell’indolenza che si porta dietro e lo rende il personaggio che è.
Per me lui incarna un po’ Roma, come lo hanno fatto, ad esempio, Proietti o Sordi. Fellini da grande diceva di voler diventare un aggettivo, ecco, Verdone ce l’ha fatta: “verdoniano” ti rimanda a un mondo noto. Tant’è che alcuni modi di dire li prendiamo da lui: se senti dire “n’chessenso?”, non puoi che pensare a Verdone.
Parliamo di salute mentale. Hai mai dovuto affrontare dei momenti che ti hanno messo alla prova, soprattutto in ambiente lavorativo?
Questa domanda capita al momento giusto: ho da poco ricevuto un grande “no” dopo mesi di provino e non ne avevo mai ricevuto uno così pieno, così vero, soprattutto dopo averci creduto tanto. La mancata concretizzazione di questa occasione è stata una grande delusione e ha seguito un periodo pesante. In una poesia Kipling scriveva “tratta il trionfo e la rovina alla stessa maniera”, ma è molto facile sentirsi alle stelle per un successo e sprofondare davanti ad un rifiuto. È un aspetto su cui sicuramente devo lavorare e quel “no” è stato un grande insegnamento.
Una delle più grandi difficoltà del mio mestiere, poi, è che in un certo senso corrispondi all’offerta che porti ai casting; quando non ti prendono sembra che stiano scartando te personalmente e non il tuo progetto, ed è invece fondamentale ricordare che sono due cose distinte.
Hai delle regole d’oro per salvaguardare il tuo benessere?
Non ho un vero e proprio set di regole da seguire. Ad esempio, mentre parliamo mi trovo nella mia casa in collina, che è proprio il luogo dove mi ritiro fra un impegno e l’altro per ricaricarmi: trovo importante dedicarsi qualche momento di pace. Un grande sostegno viene anche dalle sedute di psicoterapia, che continuo ormai da qualche anno: mi guidano nell’introspezione e mi aiutano a gestire meglio emozioni cui altrimenti farei fatica a dare il giusto spazio e che io tenderei a somatizzare.
Quali sono i tuoi piani per il futuro? Qualche nuovo progetto nel cassetto, una storia da raccontare?
Ancora non so esattamente… In quanto a storie da raccontare avrei più che altro in cantiere un cortometraggio animato… ma quello ce l’hanno tutti!