La magia del cinema come strumento terapeutico
‘Kalima’, il cortometraggio di Ghila Valabrega che accompagna una giovane donna al superamento del suo trauma
Vari teorici sostengono che le origini più profonde dello psicodramma – una forma di psicoterapia dove i partecipanti mettono in scena uno spaccato di vita personale al fine di superare conflitti interiori – si potrebbero individuare già nelle antiche tragedie greche che, secondo alcuni, erano caratterizzate da un forte aspetto terapeutico. Di questa opinione era anche Aristotele, convinto che attraverso l’interpretazione e la messa in scena di tragedie si potessero dare, al pubblico e agli attori, gli strumenti necessari per valicare le avversità della vita. È da questi concetti che nasce l’ultimo progetto della regista Ghila Valabrega: ‘Kalima’, la storia vera di un abuso sessuale e di un viaggio inteso come metafora – sia fisico che interiore – della donna che l’ha subito per riconnettersi alla propria anima.
La giovane regista nata a Milano nel Marzo del 1986 si dedica al cinema da ormai una decina d’anni, nonostante il primo impiego dopo aver conseguito una laurea triennale in Illustrazione e Cinema di Animazione tra Parigi e New York sia stato all’interno di un’agenzia pubblicitaria al centro di Manhattan. Ghila trova tutt’ora molto affascinante il potere della comunicazione e l’influenza che può avere sulla massa.
L’occasione per fare il primo passo verso il mondo del cinema capita per caso quando, ad un corso serale di Film Directing presso la SVA (la School of Visual Arts di New York City), conosce un regista serbo che era stato assistente del celebre Emir Kusturica per quindici anni e che si trovava a New York per la realizzazione di un film.
Dopo averla conosciuta e aver compreso l’interesse e la passione di Ghila, le chiede di aiutarlo sul set ricoprendo il ruolo di assistente scenografa. Per Ghila si tratta di un’esperienza che le ha dato l’opportunità di imparare e di crescere molto ma anche di collezionare qualche aneddoto divertente da raccontare: ad esempio ha dovuto infilare un cavallo vero in un taxi anni cinquanta.
Il passaggio da animatrice a storyteller è stato poi un lungo percorso fatto di incontri e storie che ha deciso di raccontare attraverso il linguaggio del cinema. Come regista infatti, vorrebbe contribuire attraverso il suo realismo magico a sensibilizzare le masse, a farle riflettere, possibilmente strappandogli anche una risata.
Da circa due anni ha iniziato a studiare per diventare operatrice di costellazioni familiari e sistemiche, un tipo di analisi e terapia simile allo psicodramma: si lavora tramite la coscienza collettiva dove le storie individuali curano e parlano ai nodi dei partecipanti. Ghila ha deciso di integrare la terapia alla sua passione per il cinema dando vita a questo primo cortometraggio, ritenendo che elaborare un esperienza traumatica tramite la reinterpretazione possa aiutare il corso dell’healing, un processo di meditazione che porta a guarigioni fisiche, psichiche e spirituali.
‘Kalima’ – ora in post produzione – è infatti il ritratto intimista di una donna che, dopo un abuso sessuale, intraprende un viaggio guidata da una figura enigmatica che la condurrà in un luogo sacro per ritrovare se stessa. L’idea del film prende forma in maniera del tutto spontanea: Ghila va a trovare Carolina Grisorio, protagonista del corto e cara amica della regista fin dalle elementari ma non attrice di professione, sull’isola di Fuerteventura. Partendo dallo scambio, dalla condivisione di pensieri e dolori riguardanti il trauma che le accomuna, ispirata dalla location – un labirinto di land art in mezzo al deserto – Ghila propone a Carolina di lavorarci insieme trasformandolo in un film. Entrambe concordano che, in seguito ad un abuso, qualcosa di profondamente intimo si rompe: si tratta di un evento talmente potente da innescare, da lì in poi, la “maschera della sopravvivenza”. La dissociazione, intesa come l’essere assenti a se stessi, in termini spirituali può essere chiamata “distaccamento dall’anima”.
“Quando ti si spezza qualcosa dentro, come dopo un abuso, non è semplice ricomporsi. Impari a convivere con l’ansia e il dolore ma mettere a fuoco ciò che ti è successo fa paura. Io temevo che elaborare il mio trauma avrebbe portato alla morte della donna che pensavo di essere: una donna che prende le proprie decisioni, che sa leggere le situazioni e capire quando si trova in pericolo. Inoltre sentivo che avrebbe avuto delle ripercussioni anche sulla mia sessualità e ovviamente, sulla mia armonia interiore“.
– Ghila Valabrega
Non ci nega che sia stato difficile lavorare a questo progetto e in particolare la parte in cui hanno messo in scena l’abuso: le memorie del corpo e il subconscio non dimenticano e, usando tecniche sperimentali e alcuni strumenti di “coordinamento emotivo”, hanno fatto riemergere in sicurezza certe memorie ed emozioni che erano state rimosse tra cui l’impotenza, il disorientamento e la paura. Con l’aggiunta di essere in un “safe space, surrounded by love”.
Sempre guidata dall’istinto, da una forte empatia e dalla continua curiosità, Ghila vive la vita seguendo i suoi ideali da healer, ed è anche per questo che ha scelto di lavorare nel cinema. Per lei il set è proprio il luogo dove passione, coscienza e consapevolezza dovrebbero essere poste al centro di ogni progetto, affinché si possano usare lo schermo o le storie narrate come veicolo di riflessione e, in questo caso, di terapia.