Benvenuti a Casa Selton
Not Yet incontra la band più internazionale del panorama underground italiano nel suo appartamento di Loreto, tra mescolanze musi-culturali e una sitcom esilarante
Un pomeriggio d’estate, camminando tra le mostruose bocche magmatiche di Park Güell , avresti potuto sentire le note di ‘Don’t Let Me Down’ arrivarti dritte alle orecchie grazie alle voci – e alle mani – di quattro ragazzi di Porto Alegre. Sembra di leggere l’inizio di un racconto di Roberto Bolaño, invece è l’inizio della storia dei Selton: quattro ragazzi brasiliani, ex compagni di scuola rincontratisi per caso, che suonano le cover dei Beatles nelle strade di Barcellona.
Da lì è iniziato un lungo viaggio musicale che dura tutt’ora e i ragazzi di Barcellona sono diventati una delle band più interessanti del panorama indie e underground italiano, componendo dischi pieni di colori e cercando costantemente di mescolare idee e culture apparentemente lontane.
I Selton, ormai stabilitisi a Milano da più di dieci anni, hanno impiantato le loro radici brasiliane nel quartiere popolare di Loreto e di quel disagio sociale hanno fatto la loro forza motrice.
Not Yet li ha incontrati per farsi raccontare come, nutrendo il proprio talento con perseveranza e inventiva, possano nascere scoperte impensate anche dalle differenze, e come un luogo ignoto e impervio possa essere trasformato nel proprio paradiso.
Partiamo dall’inizio della vostra storia: come diavolo avete fatto ad incontrarvi di nuovo dopo la scuola e a decidere di formare una band?
Veniamo tutti da Porto Alegre – nel sud del Brasile – e abbiamo fatto il liceo assieme ma ad un certo punto decidiamo, ognuno per conto proprio, di partire per Barcellona. Ci ritroviamo lì, per caso, e ci siamo detti “perché non provare a suonare al Park Güell per racimolare qualche spicciolo?”. Diciamo che la band sarebbe dovuta durare un’estate ma ormai sono dieci anni che suoniamo insieme!
Da Barcellona a Milano, sotto l’invito del produttore Gaetano Cappa. Nel 2008 esce il vostro primo album ‘Banana a Milanesa’ che intende reinventare i grandi brani del rock meneghino anni 60/70 in chiave brasiliana. Come avete vissuto questo periodo di ambientamento milanese a Loreto, uno dei quartieri popolari della città dove la cultura underground e la voglia di rivalsa caratterizzano lo spirito delle persone che lo vivono quotidianamente?
È stato un grande salto, sicuramente. Barcellona è una città dove ogni angolo, ogni anfratto, può essere trasformato in festa. Dove ogni scusa è buona per passare la giornata in spiaggia.
Trasferirsi da quella “festa mobile” all’inverno milanese, al famigerato bus 90, ad uno dei quartieri più inospitali (almeno al tempo) della città ci ha messo a dura prova. In certi momenti ci è sembrato tutto un grosso sbaglio e la barriera linguistica non era semplice da scavalcare, ma abbiamo insistito nei nostri sbagli –come forse ognuno dovrebbe fare – e alla fine siamo arrivati a dedicare un disco a Loreto perché solo se ti rimbocchi le maniche puoi trasformare il luogo che abiti nel tuo paradiso.
Nel 2010 inizia una longeva collaborazione con Tommaso Colliva, produttore di band di influenza mondiale che vi porta ad incidere, in sei anni, tre album fondamentali per la vostra carriera: dall’ononimo ‘Selton’, al nostalgico ma incredibilmente ironico ‘Saudade’ fino al fresco e seducente ‘Loreto Paradiso’, dischi che fanno della contaminazione a cielo aperto la loro forza naturale. È un periodo fatto di incontri musicali importanti, tour in tutto il mondo e crescita stilistica esponenziale. Quali esperienze hanno temprato più profondamente il vostro spirito creativo?
In effetti questi tre dischi sono stati davvero grandi esperimenti, molto diversi da quelli precedenti, e abbiamo cercato di contaminare la nostra creatività con i suoni e le musiche più disparate. In quel periodo ascoltavamo soprattutto musica estera e il nostro obiettivo era quello di addentrarci sempre di più in una cultura a cui sentivamo di non appartenere fino in fondo e allo stesso tempo di non abbandonare del tutto una cultura che, per il molto tempo passato lontano da casa, stavamo rischiando di perdere. Dalla ricerca delle nostre melodie, di suoni e dalla formazione della nostra vera e propria identità, è venuto fuori un costante ibrido tra culture musicali diverse e Tommaso ci ha aiutato molto a costruire questo ponte che regge tutt’ora.
Nel 2017 esce l’album concettualmente più maturo, ‘Manifesto Tropicale’, che già dal titolo e dal contenuto di certi brani (‘Tupi Or Not Tupi’ su tutti) è un chiaro riferimento a quel cannibalismo culturale che Oswald de Andrade indicava come motore di sviluppo fondamentale della cultura brasiliana: fagocitare l’altro, avvicinarsi ad esso per spremerne il meglio ed assimilarne la verità. A cinque anni di distanza dal disco, avete compiuto la missione o ritenete che, da allora e da sempre, ci sia comunque bisogno di un continuo rinnovo?
È una missione infinita, che trova sempre il modo di rinnovarsi e quindi non può mai essere portata a termine, proviamo sempre a raggiungere qualcosa che esiste solo nella nostra testa e l’unico vero modo per rappresentarlo è tradurlo in milioni di modi diversi. Il Brasile è un grande calderone di culture e fagocitare l’altro è una vera filosofia, un metodo, più che un punto di arrivo. Rinnovarsi costantemente rimane la chiave per non stancarsi mai di quello che si fa e non risultare banali agli altri.
Contaminazione culturale o meno, ‘Benvenuti’, uscito nel 2020, è sicuramente il vostro album più contaminato musicalmente. Ne sono una chiara prova i numerosi featuring (più di qualsiasi altro disco) e il fatto che è stato interamente cantato in italiano. Quali ragioni hanno portato a queste due scelte stilistiche ben precise?
‘Benvenuti’ è uscito ben dieci anni dopo il nostro arrivo in Italia e cantare in lingua italiana ci è ormai sembrato più che naturale, lo abbiamo scritto direttamente, senza ragionarci troppo. Dalla voglia di sperimentare nasce l’idea di inserire tante collaborazioni: abbiamo sempre fatto tutto tra di noi o insieme a Tommaso ma qui abbiamo messo insieme tanti musicisti, tante voci, tanti cervelli e ne è scaturito un disco molto sfaccettato dal punto di vista creativo. Pur avendo parlato spesso di contaminazione, abbiamo sentito di non aver mai veramente fatto un disco che ne fosse la rappresentazione più variegata e genuina e allora ci siamo detti “Apriamo la bolla e facciamo entrare più cose possibili”.
‘Benvenuti’, lo si è detto spesso, è un album fortemente politico. Sotto certi aspetti riprende forse il concetto espresso in ‘Manifesto Tropicale’, sviluppandolo però in senso opposto: non più fagocitare l’altro, non più assimilarlo a sé ma aprirgli la porta per accostarsi ad esso e celebrarne le differenze. È forse anche per questo che avete dedicato molto tempo al disco, accompagnandolo con un progetto di ampio respiro come la sitcom ‘Benvenuti A Casa Mia’?
Per noi ‘Benvenuti’ è una continuazione del disco precedente: fagocitare l’altro significa puntare al miscuglio tra mondi diversi, puntare al futuro. Questo deve risultare il processo più naturale possibile perché ognuno di noi è frutto di una mescolanza, di un mix continuo di suggestioni, influenze, culture e tradizioni diverse. ‘Benvenuti’ è una celebrazione di un incontro – già dal titolo stesso – e anche da questo è nata la sitcom. Ci siamo divertiti tantissimo cercando di riprodurre fedelmente quello che succede in casa Selton, un continuo va e vieni di persone, amici, artisti (tra cui Margherita Vicario, Myss Keta o Albi dello Stato Sociale). È stato un tentativo di presentare il disco in modo differente anche a causa della mancanza di un vero e proprio tour a causa della pandemia.
A proposito: il vostro rapporto con il pubblico è bellissimo e quando salite su un palco create dei veri e propri show che incantano l’ascoltatore creando un alchimia perfetta tra voi e il vostro pubblico. Nel numero zero di Not Yet Magazine, il tema focale era ‘Life of artists during fuc***g COVID-19, in cui abbiamo raccontato come gli artisti hanno dovuto affrontare gli ostacoli creati dalla pandemia come ad esempio, il blocco totale dei concerti. Pensare che tutto possa tornare presto alla normalità è utopistico? Che cambiamenti credete abbia portato la pandemia nell’industria musicale?
Forse non tutto tornerà come prima, l’industria musicale è diventata più affamata di numeri e, nonostante continuino ad esserci molti musicisti indissolubilmente legati ai live, un cambiamento culturale a livello di produzione e di pubblico è inevitabile. Pensiamo però che la necessità di vivere la musica insieme, che la voglia di condividere questa arte così radicata nello spirito umano sia qualcosa di eterno e inamovibile, non basteranno due anni di stop per estirparla.
Ci sono stati periodi in cui non vi siete sentiti supportati o avete pensato di non farcela? Quali consigli dareste ai giovani creativi che stanno affrontando queste difficoltà?
Il consiglio più grande è di cercare in tutti i modi di capire perché si fa qualcosa. L’elenco di fallimenti sarà inevitabilmente molto lungo, per noi è stato l’inverno del Park Guell senza pubblico, la prima casa discografica che ti abbandona, il primo concerto del disco successivo con un solo spettatore pagante… e la lista potrebbe continuare all’infinito. Ma se si ha in testa un obiettivo e si continua a fare qualcosa perché puoi sentire che, facendola, qualcosa dentro di te cambia, allora non bisogna chiedersi altro. Solamente dimostrare molta voglia di migliorare e lavorare… E tanta perseveranza nei vostri sbagli *sorridono*.
Parlando del futuro, avete altri progetti in cantiere?
Suonare ed invecchiare suonando insieme. Probabilmente saremo in tour quest’estate e ci stiamo preparando per creare il nuovo capitolo della nostra storia, il nostro nuovo disco. Per il resto, siete sempre i Benvenuti in casa Selton!