ASAP e MATILDE: Due cortometraggi di Alessia Campanotto
Ci siamo dimenticati dei nostri corpi
Sembrerà ovvio, ma ogni atto artistico parte sempre dal corpo. È la base dell’esperienza, lo strumento che plasma il mondo, il manifesto della nostra personalità. Il corpo umano è da sempre stato plasmato e adornato, umiliato e svilito, riprodotto in serie, abbellito in post, all’occasione ferito o idealizzato. Ora, molti artisti dell’immagine, in primis la nuova generazione di fotografi, sembrano aver fatto proprie le fertili esperienze performative ed espressive della seconda metà del secolo scorso, e aver riportato il corpo al centro dell’indagine artistica e narrativa, mettendolo in relazione col mezzo video-fotografico.
I cortometraggi di Alessia Campanotto, in fondo, parlano proprio di questo: il corpo, o meglio, come ci siamo dimenticati del corpo. Oggi lo guardiamo distrattamente mentre l’osso alla base del nostro collo si calcifica e le nostre dita si allungano per consentirci di raggiungere anche l’app nell’applicazione in alto a destra, ma è sempre stato lì, a rigenerare le sue cellule. L’umano che si dimentica di sé, del suo costrutto fisico e finisce per non conoscersi, affidando il proprio corpo ad una guida automatica che lo porta a involvere.
I don’t know myself at all è la frase con cui esordisce la protagonista di Matilde, cortometraggio sospeso tra l’onirismo narrativo e il flusso di coscienza. Come una Eveline moderna, la protagonista guarda attraverso la finestra cieca dei propri pensieri, scopre di non conoscersi e non riconoscersi. Il suo corpo gracile e racchiuso nell’inquietante ossatura di un eco-mostro abbandonato e mal intonacato, lo sguardo quasi catatonico rivolto alla camera, come fosse uno specchio. Un corpo indagato dall’oggettività distante della macchina da presa, separato dalla sua stessa voce che monologa distaccata. Ci parla del senso di estraneità da noi stessi, riecheggiando le teorie sul perturbante di Freud e narrativizzando lo straniamento del Video-Corridor di Bruce Nauman (1983).
In fondo, molti di noi lo possono provare ogni giorno questo Unheimliche, guardando i propri profili social, curandoli più di quanto non facciamo con il nostro corpo, osservando il nostro volto rifratto nel mosaico del nostro profilo, oppure la nostra voce leggermente diversa nelle registrazioni audio.
Nei quattro minuti di Matilde, Campanotto riesce a concentrare con una scrittura essenziale e mai retorica, un’urgenza eternamente contemporanea che scalpita sotto l’apparenza visuale impeccabile e le tinte fredde della fotografia. L’immagine statica, formalmente perfetta che si stabilizza al termine della pseudo-panoramica iniziale, si agita e si frammenta nel bosco in cui Matilde cerca sé stessa. L’oggettiva si fa mobile. Una carrellata veloce ci scaraventa nel suo occhio e si raccorda con quello di un coniglio, siamo in un bosco. Lo stile cambia, Matilde cerca sé stessa e noi con lei: le inquadrature si fanno più veloci, lo scenario ammicca agli archetipi horror. In fondo, anche questo è crescere: attraversare la nebbia fitta delle illusioni senza rimanere cieco, trovare il coraggio di guardare il proprio abisso, il luogo dove l’acqua è più cupa e non sappiamo quanto dista il fondale, infine, buttarsi. Matilde parte da un bisogno banalmente umano e quindi universale per poi renderlo azione, ammiccando ad elementi enigmatici e ammalianti, come il pupazzo sgonfio appeso alla balconata, guscio vuoto che ricorda le forme morbide del Cremaster Cycle di Matthew Barney.
Matilde alla fine raggiunge sé stessa, nell’esplorazione di un paesaggio interno che passa dall’edificazione umana, alla vegetazione fitta e misteriosa e approda ad uno spazio immateriale e profondo, fatto di luce e gravità. La lasciamo nel vuoto delle possibilità, un buio a cui dobbiamo abbandonarci, rischiarato da una luce fioca ma presente. In tempi in cui la distanza tra gli individui sembra essere una priorità indiscutibile del vivere sociale, testi come questi si impongono con ancora più potenza e necessità, giocando visivamente quanto drammaturgicamente sulla specularità, come confronto con noi stessi, ma anche come condanna all’allontanamento dagli altri individui. La specularità, l’osservarsi vivere è una delle esperienze più stranianti per l’essere umano, ma può essere epifanica, risolutiva. Come nel caso della protagonista di ASAP – Amor Sacro e Amor Profano. È nel bagno – il luogo del corpo, dell’intimità, del conoscersi – quando realizza che un’esistenza asservita alla repressione di qualsiasi istintualità non vale la pena. Come in Matilde, l’urgenza è il prevalere dell’esperienza sul pensiero, trovare il coraggio per guardarsi per ciò che si è, scivolare nel flusso e lasciare che il corpo ne diventi parte. Nel caso di ASAP, l’impianto narrativo è più complesso, meno autonomo e unitario.
Ai movimenti di macchina a precedere e seguire di Matilde si sostituiscono campi più piani, ampi e meno mobili, al voice-over intimo suppliscono dialoghi volutamente impostati. Lo scenario è dispotico: ammicca a Black Mirror (2011-19) e al tono surreale di The Lobster di Yorgos Lanthimos (2015), ma anche all’immobilità tragica della poetica di Roy Andersson.
Siamo in un ristorante, occasione di convivenza di più tipi sociali, che diventa teatro della riconsiderazione delle ossessioni umane dei nostri giorni, portate all’estremo, rappresentate allo stadio ultimale, quando non ci sarà più niente da fare, o quasi. I cartellini sul petto, medaglie al valore del rifiuto dell’effusione, dell’istinto, dell’animalità, denotano l’abnegazione di chi sta al passo coi tempi, quelli del progresso, dell’accantonamento del corpo.
Qui non c’è fiume a cui abbandonarsi, abisso in cui cadere, corpo da conoscere, ma solo l’opprimente sensazione di prigionia, dettata anche dai costumi quasi clericali e monocolore che ricordano il tetro candore di quelli di Midsommar di Ari Aster (2019). La messa in scena è volutamente macchinosa, asettica, quasi burattinesca. Un’impostazione visiva netta e pulita, giocata per contrasto con la citazione dell’opera di Tiziano e dei suoi tratti morbidi, sinuosi. Anche in questo caso, una donna si ribella sottovoce. Il bacio diventa atto politico, ricordandoci le performance di artiste come Gina Pane, in cui l’atto corporeo diventava il tempio in cui innalzare l’azione sociale ad artistica e viceversa. Oggi il continuare è quello del video, lo è da diversi anni. Ma l’atto di rottura, sebbene mediato dal mezzo, arriva comunque potente.
Alessia Campanotto delinea un rischio e fa di tutto perché le sue eroine lo disinneschino, senza platealità o ammiccamenti all’emozione: l’individualismo come controindicazione del progresso, l’abbandono di una naturalità spontanea e istintiva. Le sue protagoniste sono silenti, ermetiche, indecifrabili ma paradossalmente cristalline e limpide, come lo sono i bambini. Si avverte infatti, un senso di nostalgia verso quell’immediatezza tipica dell’infanzia. Quegli anni in cui il pensiero non bloccava, la società era una cosa da grandi, il corpo e lo spirito erano una cosa sola e non avevamo paura di noi stessi.
ASAP – AMOR SACRO AMOR PROFANO