In conversazione con il regista Luca Sorgato: Attilio Lolini, il tempo e La Trilogia della Disillusione
‘Sbadigli’, presentato alla quarantaseiesima edizione del Laceno D’oro è il terzo e ultimo capitolo della ‘Trilogia della Disillusione’ del giovane regista Luca Sorgato. Come ‘Ventilatore’, premiato al Lamezia Film Fest e ‘Pistacchi’, selezionato dal Festival des Cinéma Différents et Expérimentaux de Parigi e premiato al Collateral 102 cinefest.
L’opera è tratta dalle poesie di Attilio Lolini, letterato senese morto nel 2017, vero outsider della poesia novecentesca nostrana, sconosciuto ai più. Gli scritti di Lolini trasudano un netto sentimento di dis-appartenenza al proprio tempo e una arguta capacità di cogliere l’assurdità nascosta dietro all’abitudine, alle cose piccole, tra la noia umana.
Sorgato, classe 1985, traspone con raffinatezza e rigore questo sentimento nel dato visuale in equilibro tra tragedia e commedia. Il suo è un cinema riflessivo che usa il dettaglio oggettuale per divaricare l’apparente banalità dell’esistenza.
Eppure come intuiamo anche da questa nostra intervista, Luca – così profondo e maturo nello sguardo, a parte l’amore per autori come Kaurismaki e Monteiro Petri – non si definirebbe un cinefilo.
Come ti sei imbattuto nell’opera di Attilio Lolini?
Lolini è uno di quegli artisti che il novecento ha sommerso. Oggi è praticamente sconosciuto ai più. Ho letto una sua poesia e sono stato subito rapito dalla facilità con cui i suoi scritti riescono ad aprire squarci di riflessione sulla quotidianità. La prima raccolta che ho letto è stata “Carte da Sandwitch”. In fondo, è un autore tragicomico. Coglie la realtà con disillusione ma non è mai totalmente tragico. Ha uno sguardo sull’esistenza che è cinico, ironico e disilluso e in questo è molto simile alla mia sensibilità.
La cosa che colpisce maggiormente dei tuoi lavori è il fatto che sono adattamenti non dalla prosa, come accade frequentemente, ma dalla poesia. Come si adatta un testo in versi per il video?
La verità è che non ho una risposta a questa domanda. Chi vuole adattare per l’audiovisivo una poesia non può sperare di ricreare il testo e neanche di essergli totalmente fedele. Nasce sempre qualcosa di diverso e autonomo rispetto al testo di origine. Quello che si può restituire è l’atmosfera, la sensazione.
Quindi in qualche modo, l’hai tradito?
Ho avuto la grande fortuna di visitare casa sua e di conoscere la moglie Loredana. Anche grazie a questa esperienza sono riuscito a conoscerlo un po’ di più e se ho colto bene la sua personalità, posso dire di averlo tradito nella misura in cui ho tentato di riportare alla luce la sua voce, le sue parole. Lolini era totalmente inviso alla fama, nel senso che la rifuggiva. Era scisso e separato dal lato più mondano e famigerato della scrittura e del giornalismo. Quindi forse, non sarebbe troppo contento di sapere che posso avergli dato eco (ride).
È comunque un grande atto di amore per la sua opera, no?
Non poteva essere altrimenti, perché io e Lolini condividiamo lo stesso immaginario. Nonostante io non abbia mai avuto la fortuna di incontrarlo di persona, a me sembra quasi di aver conosciuto un amico. L’audiovisivo è un megafono ma l’importante è non essere superficiali o semplificativi. L’ho pugnalato alle spalle perché lo sto portando alla luce ma l’importante è scegliere un approccio che vada in profondità. Oggi sappiamo poco di tutto, è quasi un atto di protesta andare in profondità nelle cose.
In fondo, così come un rituale, un’opera è viva quando cambia e si trasforma nel tempo. E quest’opera sembra proprio avere il tempo come tematica principale.
Esattamente, il tempo e la percezione che abbiamo di esso è uno dei temi a cui sono interessato di più e con questa trilogia ho tentato di indagarlo. L’attesa, la sospensione prolungata degli eventi, devono essere restituiti dall’immagine come una sensazione, non tanto adibendoli a degli oggetti scenografici o alle battute degli attori. Deve essere una caratteristica intrinseca all’immagine.
Questa sensazione di dilatazione temporale di cui parli si coglie e anche nettamente. Pare quasi che questa caratteristica del tuo cinema voglia restituire la pagina bianca del foglio.
È una bella osservazione. Ho tentato di mettere in scena un tempo ben diverso da quello ritmato e frenetico a cui siamo abituati oggi. Un tempo antipodico rispetto a quello della produttività milanese, ad esempio. Ho lavorato in tv per alcuni anni, come operatore. È un mondo che ora sento molto lontano dal mio, forse proprio per la sua concezione del tempo come utile, il tempo coatto del palinsesto. In quel periodo ho infatti sofferto alcune situazioni grottesche.
Penso che questo approccio disilluso ma ironico, mai vinto, sia la cifra che vi accomuna di più. A tal proposito: perché si chiama Trilogia della Disillusione?
Userò la parola “generazione” anche se la trovo fallace e limitativa. Sono nato nel 1985 e durante la mia infanzia è sostanzialmente finita la festa degli anni ’80. Oggi, per la nostra “generazione” sembra sia un obbligo sentirsi in colpa e crocifiggersi per gli errori dei nostri padri, talvolta dei nostri nonni. Questa è la disillusione a cui mi riferisco, ma trovo che l’ironia con cui Lolini guarda alle criticità del suo tempo sia l’approccio giusto, un antidoto esistenziale insomma. Il fatalismo di Lolini mi aiuta a credere che la festa non sia finita negli anni ’80 ma che si possa festeggiare anche l’esistenza a cui siamo tutti condannati.
Un atteggiamento virtuoso oltre che raro.
È inutile gridare alla morte di tutto. L’essere umano ha una naturale propensione all’esagerazione. Bisogna accettare la morte come parte costitutiva della vita e in fondo i miei cortometraggi parlano di questo. Ogni corto che faccio deve essere un mio testamento, un qualcosa che rimarrà anche dopo di me. Per questo penso attentamente alla realizzazione. Spesso rinuncio a fare delle cose quando non ne sono sicuro. Anche non fare è una scelta, un’azione.
Ad esempio, i personaggi sulla scena sostano, più che agire. Com’è stato il rapporto con Renato Ansaldi, l’attore protagonista?
Lui è un attore straordinario. Purtroppo è mancato pochi mesi fa. Era un’artista di grande talento. Anche lui è riuscito ad entrare in sintonia con l’immaginario di Lolini e, come lui, era una gemma nascosta della nostra arte. È stato la chiave per iniziare a girare il progetto.
So che stai lavorando su un testo di prosa di Lolini. Puoi anticiparci qualcosa?
Si. È il suo unico romanzo, “Morte sospesa”. È ormai fuori catalogo ed io ho comprato le uniche copie rimaste. Frequentando sua moglie Loredana, con cui ormai sono diventato amico, ho potuto accedere alle bozze. È un testo che ha subito un processo di smembramento dal suo stesso autore, come se volesse pubblicare qualcosa di illeggibile. Il testo terminato è ostico, come ritrovare un mazzo di chiavi in un cespuglio di rovi. Gira attorno ad una vicenda macabra a cui Lolini aggiunge la sua riflessività mai banale.
Quindi in un certo senso, continuerai a tradirlo e omaggiarlo allo stesso tempo?
È molto difficile proporre un film del genere. I soldi e il ritorno economico sono il setaccio attraverso il quale passa ogni progetto, inevitabilmente. Non so ancora se sarà un adattamento o se sarà semplicemente ispirato, ma la cosa che mi interessa è non costringermi per forza a proporre un tema sensibile per esprimermi. Sarebbe un vincolo adattarsi ai temi che impone la contemporaneità.